“L’ultima sera” pubblicato nella raccolta “Racconti Emiliani” edita da Historica Edizioni

Tommaso inforcò la bici e Pietro si sistemò dietro: il sedere premuto contro il portapacchi, le gambe un poco sollevate e la guancia appoggiata alla sua schiena.

“Allora rimane pure tua sorella?”, gli chiese Pietro.

“Sì”.

“E che focaccia le si prende?”

“Quella che ci pare, le va bene tutto”.

Pedalava piano come sempre, come se non avesse fretta né di andare né di tornare, solo di godersi il viaggio. La focacceria era piena di gente e di caldo, i loro piedi erano sporchi di sabbia e la pelle profumava di crema solare. Tre focacce farcite col prosciutto e il formaggio, una carta marrone per avvolgerle tutte assieme.

Sandra li aspettava al bar della spiaggia, una bottiglia di Coca Cola in una mano e dei tovaglioli nell’altra.

Una distesa di sabbia solo per loro, i bagnini che apparecchiavano il mare per la notte, i lettini in fila e gli ombrelloni con gli occhi chiusi, il sole come una palla arancione, inghiottita dal mare che aveva delle onde piccole e stanche, il cielo che cambiava colore minuto dopo minuto. Pietro non disse nulla, non si dice mai nulla quando i momenti sono troppo belli, e quello fu il tramonto più spettacolare lui avesse mai visto, forse perché era assieme ai suoi due migliori amici del mare, che avevano tredici anni e quando tu ne hai dieci questo può fare la differenza, farti sentire speciale. O forse perché il giorno dopo sarebbero tornati a casa, e chissà se si sarebbero mai rivisti.

Si alzò all’improvviso il vento, e portò della musica leggera dallo stabilimento vicino. Tommaso appoggiò il panino sulla sedia a sdraio, prese la mano della sorella e le disse: “Balliamo, Sandra?”

Era bella, Sandra, con i capelli neri, lunghi e diritti. Erano neri come i suoi occhi che brillavano, due stelle fra le stelle che spuntavano in cielo sempre più numerose, a mano a mano che la notte arrivava.

Pietro rimase seduto sul lettino a guardarli, erano così affascinanti da non sembrare reali, i loro corpi abbronzati che stavano vicini, per poi allontanarsi e di nuovo cercarsi, la figura morbida di Sandra che si muoveva sotto al copricostume. Rideva, mostrando i suoi denti bianchi e perfetti, e Pietro se avesse potuto si sarebbe messo in tasca quel sorriso, che si faceva più largo ogni volta che lei si scostava i capelli dal viso con un gesto rapido della mano.

Conobbe Sandra e Tommaso l’estate dei suoi sei anni: un’unica casa in affitto per tre mesi, complice l’amicizia delle loro nonne, dalla quale si vedeva il mare come scriverebbero i poeti, ed era proprio così. Gliel’aveva affittata la panettiera: un giorno d’autunno Pietro era andato a fare una gita in zona con sua nonna Maria, splendeva il sole e faceva quasi caldo. Affamati, erano entrati nell’alimentari per prendere qualcosa da mangiare e una donna rotonda come un mappamondo, dalle guance rosse e paffute, i capelli biondi raccolti in una crocchia ordinata, li aveva scrutati con attenzione e gli aveva detto: “La volete una casetta in affitto per l’estate? Sta proprio qui, si prende la salita che porta al campanile. Dieci minuti e si arriva alla spiaggia”. Con la mano sporca di grasso di prosciutto aveva indicato un punto indefinito sopra la sua testa.

“La si vede bene, c’ha una porticina azzurra dipinta di fresco. L’ha dipinta mio marito, sapete? Ingresso indipendente, tutto per voi, fate tre rampe di scale e c’avete il soggiorno con la cucina, abitabile eh, tre camerette e il bagno. E poi il signor mare, tutto per voi, da ogni finestra. Anche dal bagno”.

“E perché no”, aveva detto Maria.

“Si va io e te, nonna?”, le aveva poi chiesto Pietro una volta usciti dalla bottega.

“Sai che si fa? Si chiama anche la Giovanna, che è appena diventata vedova. Vedrai come le garba l’idea”.

“La Giovanna di Milano, quella dei nipoti gemelli?”

“Proprio lei”.

A Pietro la casa era piaciuta fin da subito, perché vedeva le luci dei pescherecci, la sera, e perché la prima volta che ci mise piede trovò un paio di numeri di Topolino abbandonati dentro a un cassetto dell’armadio. Li aveva letti la sera stessa di nascosto, con la testa sotto al cuscino e una pila a illuminare le pagine. Ogni tanto si alzava, andava davanti alla finestra e guardava fuori: il mare era sempre lì, scuro come la notte, una distesa nera, liscia e uniforme che si confondeva con il cielo. Minacciosa a volte, quando soffiava il maestrale portando tempesta.

Quell’ultima sera Pietro entrò in casa, si lavò via sabbia e sale sotto alla doccia, indossò le sue mutande di Superman preferite e si infilò sotto al lenzuolo che profumava di fresco e notte. Aprì un libro e si lasciò cullare dal ricordo di quella focaccia, dei suoi amici che l’indomani avrebbe dovuto salutare, dell’idea dell’amore ancora così confusa a dieci anni eppure così presente, la sentiva farsi largo prepotente nel suo stomaco quando la mamma lo baciava, o quando riceveva una macchinina in regalo da suo padre. E poi la musica leggera che gli aveva regalato la spiaggia, un paio di ore prima. Sandra, che era la ragazza più bella lui avesse mai visto.

“Beh, niente gelato stasera?”, gli aveva chiesto Sandra appoggiandosi allo stipite della porta.

“No, stasera va bene così”.

“Cosa leggi?”

“Zanna Bianca”.

Sandra si avvicinò alla finestra e guardò giù, verso i gradini della viuzza che portava al centro del paese. Un vecchio in canottiera col suo incedere lento li stava risalendo: alzò lo sguardo verso di lei e pensò che pareva un quadro, con quel viso rotondo incorniciato dai capelli che si appoggiavano ribelli e disordinati sulle spalle nude, solo un filo del vestitino a coprirle, una luce che proveniva da dietro – dalla cucina o da un corridoio, chissà, si era detto l’uomo – ne sfumava i contorni. Era così perfetta che gli sarebbe piaciuto staccare la finestra con lei dentro e portarsela a casa. Gli faceva molta tenerezza quella ragazzina che vedeva arrivare ogni quindici di giugno assieme al fratello e alla nonna a bordo di una Ritmo arancione, carichi di bagagli come se fossero partiti dalla città per non tornare più. Era schiva e discreta, salutava tutti ma non parlava quasi con nessuno. Sapeva che amava comperare i pomodori al mercato del martedì, e che prendeva libri usati al bazar della piazzetta centrale. Difficile capire se quell’anno fosse davvero felice, lì in vacanza. Cosa vuoi sapere tu di queste cose da giovani, sei solo un vecchio rincoglionito disse fra sé e sé. La guardò, salutandola con un cenno del capo, e riprese la salita verso casa.

“Che fai?”, le chiese Pietro.

“Respiro l’aria buona. Vieni, vieni qui. Facciamo il pieno per quest’inverno”.

Pietro si alzò, i piedi nudi sulle piastrelle fredde si affrettarono a raggiungerla.

“Stai un po’ con me, ascoltiamo il mare”.

Inspirarono lenti, come quando il medico deve auscultarti i polmoni.

Pietro pensò che il mare mica lo aveva sentito, ma non aveva detto nulla per non fare brutta figura.

L’aveva vista uscire dalla cameretta e fermarsi davanti al telefono grigio a disco della Sip: quasi ogni sera chiamava la sua amica Gabriella, lui lo sapeva ancor prima di sentire un Ciao Gabri, perché sentiva il rumore del disco che ruotava ed era più o meno prolungato a seconda del numero, e il numero di Gabriella era facile, aveva tre uno consecutivi e poi subito due nove. Tre giri corti del disco, e due lunghi. Sandra si sedette per terra, le gambe lunghe e nude che spuntavano davanti alla sua porta, i piedi che giocavano l’uno con l’altro.

Pietro si fece cullare da frasi bisbigliate e risate soffocate, lasciò che il respiro si abbandonasse al sonno che lo chiamava. Pensò a Tommaso, che era nell’altra stanza addormentato da un po’ ormai. Le voci delle due nonne arrivavano sottili dal muro della sua camera confinante con quello della cucina.

I suoi muscoli si fecero molli, dal primo all’ultimo, la bocca socchiusa soffiava aria calda sul cuscino, gli occhi cercarono un buio che fosse ancora più buio.

Sandra riattaccò – ci vediamo domani, ciao, sì anche tu – e si diresse verso il bagno, si lavò denti e viso con cura. Il sole le aveva fatto venire qualche lentiggine sul naso.

Mise le infradito, aprì la porta di casa e si sedette sul muretto di fronte a guardare il porto. Il peschereccio partì, come ogni sera: lo osservò uscire indomito verso il nulla, una lucina accesa e niente più. Lucciola solitaria in un bosco d’acqua.

Si alzò un’aria frizzante, lei si strinse nelle spalle, le gambe sul muretto di pietra bianca. Un cane randagio trotterellò nella sua direzione.

“Vieni qui bello, vieni”. Le passò accanto, incrociando il suo sguardo solo per un attimo, per poi sparire furtivo dietro l’angolo della casa accanto.

Quella notte Pietro sognò i compiti di matematica che non aveva ancora finito, Tommaso che il Milan vincesse il campionato. Il peschereccio lavorò senza sosta, solitario, lontano dagli uomini, e Sandra seguì lui e la sua luce fino alla fine, il mento appoggiato alle ginocchia strette fra le braccia. Li seguì fino a quando non vennero inghiottiti dall’orizzonte.

Fino a quando non le fecero male gli occhi.

 

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