Il racconto “Margherita” vince il Premio Letterario Gianfrancesco Straparola 2016

“Oggi Paolo Pietri non può uscire durante la ricreazione perché ha molta tosse”.
Consegnai controvoglia alla maestra l’avviso scritto di fretta pochi minuti prima da mio padre, con il foglio appoggiato sul cruscotto e la calligrafia imperfetta per via della plastica zigrinata sotto.
“Comunque non ne ho tanta”, le dissi alzando la voce quel tanto che bastava per farmi sentire dai miei compagni. La scuola era ricominciata solo da una settimana e avrei fatto la figura del diverso: tutti mi avrebbero notato, additandomi come quello che doveva stare in classe perché glielo avevano detto i suoi genitori.
In realtà, fu grazie alla mia tosse che io e Margherita diventammo amici. Era bellissima, con quel viso rotondo incorniciato da un groviglio di ricci lunghi e neri, neri come i suoi occhi. Aveva un piccolo spazio fra i due incisivi superiori che mi faceva tremare lo stomaco ogni volta che sorrideva. La sua pelle era così sottile che avrei potuto contarle le vene, e le sue gambe, lunghissime e magrissime, ricordavano quelle di una cerbiatta: sembravano fragili, pronte a spezzarsi da un momento all’altro, ma in realtà dentro avevano la dinamite e la facevano andare veloce, più veloce di noi maschi, soprattutto quando usciva da scuola e correva come una pazza nel giardino, facendo lo slalom fra un albero e l’altro con la cartella sulle spalle che scappava a destra e a sinistra.
Dal doppio vetro della classe mi arrivavano le voci ovattate dei miei compagni che giocavano a pochi metri da me, fuori. Decisi di prendere un libro, e di fare finta di leggere: mi ritrovai a fissare la stessa pagina per diversi minuti, lanciando lo sguardo all’orologio appeso di fianco alla cattedra, sperando che quella mezz’ora passasse il più in fretta possibile. A un certo punto sentii due dita ticchettare impazienti sul vetro: mi girai, e vidi Margherita che mi salutava. Ricambiai, e lei sorrise. Iniziò a battersi il petto con la mano, poi mi indicò, e si mise a saltare. Feci di sì con la testa, e ricambiai il sorriso. Un attimo dopo, era accanto a me: non ero mai stato così vicino a lei, da solo. Ogni volta che la maestra ci cambiava di posto, io pregavo ci mettesse vicini, ma in tre anni non era mai successo. Il cuore iniziò a battermi forte.
“Mi dispiace che hai la tosse”.
“A me non tanto”, le risposi. Ero sincero: se non l’avessi avuta, sarei stato uno dei tanti, là fuori, e lei non sarebbe stata lì con me.
“Facciamo il gioco delle parole?” mi chiese, sedendosi sul banco con le mani nascoste sotto alle cosce.
“E qual è?”
“Io dico tipo cane, e tu trovi una parola che inizia con ne, tipo nero, poi io ne penso un’altra che inizia con ro. E così via. Però non vale dire troppi nomi di colori, sono facili”.
Da allora, tutti i giorni venne a cercarmi per fare le catene di parole assieme. I nostri compagni un po’ ci prendevano in giro perché spesso non volevamo giocare con loro ai quattro cantoni o a nascondino, o a tutti quei giochi che si fanno quando sei alle elementari, ma a noi poco importava.
“Vuoi diventare la mia fidanzata?”, le sussurrai un giorno all’orecchio mentre eravamo in fila per andare a pranzo, dopo aver trovato il coraggio di far uscire nel modo giusto tutto quel fiato che avevo accumulato nei polmoni.
“Sì, ma quando siamo più grandi”.
“E perché non adesso?”
“Adesso siamo piccoli, volersi troppo bene è faticoso”.
“E chi lo dice?”
“Mia madre. Dice anche che l’amore è una fregatura, lo dice ogni volta che mio padre parte col camion”.
Quel giorno arrivai a casa molto triste, quando spiegai a mia madre il perché, lei mi prese in braccio, mi baciò la fronte e disse: “Vedi, non è mica tanto facile capire le femmine, non lo è per le donne, figuriamoci per gli uomini. Adesso ti faccio i tortellini in brodo, quelli che ti piacciono tanto, e vedrai che la tristezza va via”. La tristezza, in effetti, con quel ben di dio nel piatto se ne andò.
A scuola ci andavo contento, anche se Margherita per il momento non voleva essere la mia fidanzata, perché sapevo che l’avrei portata a casa caricandola sulla canna della mia bicicletta. Quando pioveva, lei apriva il suo ombrello gigante fatto di tanti spicchi colorati e mi piaceva, perché si faceva indietro per non bagnarsi, e si appoggiava al mio petto.
Non avevo capito che cosa avesse voluto dirmi con quel quando siamo più grandi, però aspettavo, e intanto mi facevo bastare le pedalate con lei. Ci iscrivemmo alla stessa scuola media, e pure allo stesso liceo. Spesso studiavamo insieme, o meglio lei studiava e io la guardavo: mentre mordicchiava il tappino della bic, mentre ripeteva con gli occhi chiusi i verbi latini o pasticciava il quaderno di matematica per una espressione non riuscita. La cosa che più ci piaceva fare era studiare filosofia – quella sì che mi entusiasmava – e dopo aver letto tutto il libro di testo avevamo concluso che il migliore in assoluto fosse Platone, con il suo mondo perfetto delle idee. Decidemmo che il nostro futuro sarebbe stato fra i banchi della facoltà di filosofia, così da poter far parte del mondo dei saggi. Margherita prese al gattile un gatto tutto nero con una spruzzata di bianco proprio al centro del muso. Lo chiamò Platone.
L’adolescenza era impietosa, fra brufoli e insicurezze non risparmiava nessuno, invece Margherita si era fatta, se possibile, ancora più bella con le sue gambe sempre più lunghe e i suoi occhi sempre più neri, e quel piccolo spazio fra i due incisivi che non l’aveva abbandonata. Una volta al mese andavamo nel piccolo teatro parrocchiale a vedere una compagnia di mimi che si esibiva per beneficenza. Suonare il suo campanello e sentirla rispondere scendo mi faceva sentire importante. Lei metteva sempre lo stesso vestito rosso, e io la stessa cravatta che prendevo in prestito da mio padre: ci piaceva giocare a fare gli adulti, nonostante avessimo solo sedici anni. La caricavo sulla canna e sfrecciavamo veloci, verso il teatro. I suoi ricci profumavano di buono, e il suo collo di borotalco. A me non è che piacessero così tanto quegli spettacoli, ma non mi importava, perché il mio vero spettacolo era lei, quando guardava incantata il palco, applaudiva entusiasta o commentavamo sottovoce. Non ebbi mai il coraggio di prenderle la mano, nonostante i nostri corpi fossero così vicini, al buio, seduti su quelle vecchie poltroncine di legno. Quando tornavamo indietro lei era di buonumore e cantava Patty Pravo. Se perdo te cosa farò, io non so più restare sola, ti cercherò e piangerò come un bambino che ha paura. La sua voce sottile si perdeva nella sera.
“Perché ogni volta canti questa canzone?”, le chiesi una sera.
“La canta mia madre quando stira. Mi piace”.
Il mio mondo delle idee in fondo stava racchiuso in quelle serate perfette: un ragazzo con la cravatta che accompagnava a casa una ragazza vestita di rosso.
“Sai che esco con uno di quinta?”, mi confessò un giorno con la stessa tranquillità con cui avrebbe potuto dirmi che doveva andare dal dentista.
“Sei la sua fidanzata?”
“No, ci troviamo con i suoi amici, andiamo in giro. Ci divertiamo”.
Lui si chiamava Dario, e spesso all’uscita di scuola me la portava via, caricandola in macchina. Se ne andava sgommando coi finestrini abbassati anche d’inverno e la musica che pompava dalle casse. Margherita teneva sempre il braccio fuori, la mano aperta pronta a catturare l’aria.
Forse si era fatta grande, e io non lo ero ancora abbastanza per lei. Aveva iniziato a fumare, era diventata nervosa e sfuggente. A scuola non andava più molto bene, i miei vennero a sapere che aveva iniziato ad andare da una psicologa. A me Margherita non disse mai nulla, ci rimasi male, ma capii che voleva fosse il suo segreto. Un giorno vidi sua madre uscire dalla presidenza: stretta nel suo cappotto grigio, piangeva. Mi salutò con un gesto rapido della mano, e scappò via.
“Ci sarà per sempre la nostra serata mimi?”, le chiesi una sera dopo lo spettacolo, mentre camminavamo verso la bici.
“Ma certo, Pit. Che domande mi fai?”
“Sei cambiata, Marghe. Secondo me sei diventata grande”.
“E perché lo dici?”
“Perché…fumi”.
Aveva iniziato a ridere, la sua risata calda e rotonda le arrivava dallo stomaco e riempiva le orecchie. Si era fermata, e mi aveva guardato negli occhi.
“Non sono diventata grande”.
“Sei ancora la Marghe che corre più veloce dei maschi?”
“Sono ancora quella, Pit”.
“Sei sicura?”
“Andiamo. Ho voglia di cantare”.
Quella sera lasciò scivolare fuori dalla bocca parole lente, a tratti incerte, come se all’improvviso non le ricordasse più. O volesse tenerle strette a sé.
“Te lo ricordi il gioco delle parole?”, mi chiese quando arrivammo davanti a casa sua.
“Sei sempre stata più brava di me”, risposi sorridendole.
“Eravamo bambini, Pit”.
“Già”.
“Sarà sempre il mio preferito. Non te lo dimenticare”.
“Ci vediamo domani?”
“Sì”.
Sparì dietro al portone, una macchia rossa inghiottita dal buio del cortile.
Quella fu l’ultima volta che la vidi.

Margherita salì di corsa le dieci rampe di scale, entrò in casa, si fermò in cucina e salutò con un cenno della mano sua madre che ricamava, le immagini della tv le facevano compagnia e il volume era così basso che le parole inciampavano una sull’altra. Accarezzò Platone che le dormiva accanto. Lo fece piano, dalla punta del naso alla punta della coda, diverse volte. Suo padre era già andato a letto, la porta della camera era socchiusa e lo si sentiva russare. Entrò in bagno, aprì la finestra e si fumò una sigaretta. Gettò il mozzicone nel wc, poi salì sul davanzale e si lasciò andare nel vuoto. Il vicino di casa era fuori a passeggiare col cane, disse di averla vista precipitare in silenzio, come un angelo scivolato da una nuvola.

Sono passati tre anni da quel giorno. Io mi sono iscritto a Filosofia perché stare in mezzo ai filosofi è l’unica cosa che so fare, e l’unico modo per tenerla ancora stretta a me. Ho smesso di piangere: lei si arrabbierebbe perché io piangere non l’ho vista mai, nemmeno quando cadde dallo skateboard nel cortile di casa mia rompendosi un braccio. Era diventata tutta rossa, gli occhi si erano fatti liquidi, la voce le tremava mentre se lo stringeva forte a sé e mi diceva chiama la mamma, ma non le era uscita nemmeno una lacrima.
Dopo la sua morte non sono più tornato a vedere i mimi. Una sera sono andato davanti al teatro, ho osservato le persone entrare, le stesse, nonostante il tempo passato. Per un attimo ho pensato sarebbe stato bello assistere per un’ultima volta a uno spettacolo, farlo per lei. Ma non ce l’ho fatta, e sono scappato via. Quel ragazzo con la cravatta non esiste più, senza la ragazza col vestito rosso accanto.
Ogni giorno rimango a studiare nella biblioteca della facoltà fino a sera, aspetto che arrivi il custode a dirmi io devo chiudere. Allora metto i libri nello zaino e mi incammino verso la bici. Prendo velocità, la pedalata si fa leggera giù per la ciclabile. In quell’attimo, mi sento quasi felice. Perché la sento cantare per me, ancora una volta.

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